Alla Global Commodities Conference analizzate le principali tendenze economiche e politiche – Secondo i relatori il presidente americano non disporrebbe di una chiara strategia di lungo termine – Per il giornalista Alan Friedman ci sono molti segnali che indicherebbero la fine dell’impero americano

Innanzitutto Keyu Jin, Professor of Economics, HKUST Business School and Harvard, ha parlato della Cina, che è diventata uno dei principali player a livello mondiale, e ha spiegato che Pechino ha avuto almeno otto anni per prepararsi alla politica di Trump, e ha scelto di fare delle concessioni tattiche, purché il sistema di libero scambio non venga messo in discussione. Infatti la Cina ha migliorato tantissimo il proprio livello tecnologico, e ora non considera più un confronto con l’Occidente come una minaccia esistenziale.

Idee molto chiare

«I dirigenti cinesi – ha spiegato – hanno le idee molto chiare sullo sviluppo futuro del Paese: non vogliono una economia basata sulla finanza e sulle tecnologie della comunicazione, come gli Stati Uniti, ma sull’industria. E si stanno muovendo in modo coerente. Inoltre, il fatto che in Cina ci siano ancora centinaia di milioni di persone con un reddito basso potrebbe rappresentare una opportunità».

Inoltre la Cina sta cercando di diversificare al massimo la propria economia, salendo lungo la scala tecnologica, e questo dovrebbe rendere il Paese più resistente ai dazi introdotti da Trump. «Nel 2018 – ha concluso – la Cina era più fragile, mentre ora ha fatto passi da gigante. Chiaramente, deve mantenere una industria dell’esportazione robusta per garantire la stabilità economica, ma nel medio termine i consumi interni rappresenteranno un volano di crescita».

In seguito Emily Harding, Director INT, Center for Strategic and International Studies, ha parlato della situazione americana, e ha sottolineato che purtroppo Donald Trump non dispone di una strategia di lungo termine.

Decisioni sulla base dell’istinto

«Il problema – ha aggiunto – è che Donald Trump prende le decisioni sulla base del suo istinto, e questo condizionerà il futuro, visto che resterà in carica ancora per almeno tre anni. Lui cerca di raggiungere attraverso i dazi i suoi obiettivi di riequilibrare il deficit commerciale e di avere una industria forte. Ma lo fa portando avanti questa politica con la stessa strategia di quando faceva affari: giocare in modo duro, minacciare, e poi essere duro anche nelle trattative. Ma non sempre funziona».

Infine, Alan Friedman, economista, autore e giornalista, ha tenuto la sua relazione intitolata «La certezza dell’incertezza».«Io sono un po’ più pessimista di chi mi ha preceduto – ha affermato -. Infatti, dobbiamo pensare a cosa ha realizzato finora Trump, e al fatto che la sua presidenza dura ancora tre anni e mezzo. Gli Stati Uniti ora non sono più una “liberal democracy”, e anzi, io penso che siamo alla fine dell’impero americano». Chiaramente, secondo Friedman, questo è un trend in atto già da qualche decennio, ma che con Trump ha subito una vertiginosa accelerazione. «Credo che fra vent’anni – ha detto – gli Stati Uniti non saranno più il leader delle democrazie occidentali. So che si tratta di un’affermazione molto forte. Ma basta pensare al fatto che gli USAhanno esteso troppo il loro impero, come gli antichi romani, e ora la loro presenza militare nel mondo non basta più a garantirgli la supremazia. Pensiamo a come sono andate a finire le guerre in Iraq, che ora è controllata dall’Iran, e in Afghanistan, ora controllata dai talebani. L’America è stata umiliata».

Fine del multilateralismo

«A livello economico – ha illustrato – Trump sta smantellando il multilateralismo, e non ci possiamo aspettare da lui una politica coerente e stabile: non ha un piano strategico a lungo termine, né a livello politico, né economico. Con Trump ogni mattina non sappiamo che sorpresa ci aspetta. Ormai, in questo momento l’unica opposizione a Trump sono le obbligazioni del Tesoro USA, che quando scendono fanno salire i tassi». Un altro capitolo è quello delle libertà. «Trump ha mandato la Guardia Nazionale contro i manifestanti. E il 41% dei suoi elettori trova accettabile l’uso della violenza in politica. E Trump probabilmente ne farà largo uso».

Autore: Roberto Giannetti, Corriere del Ticino
Articolo pubblicato originariamente sul Corriere del Ticino, 24.06.2025 (online) e 25.06.2025 (cartaceo)

Riprodotto integralmente su gentile concessione dell’autore.



Sergio Ermotti, CEO del Gruppo UBS, a Lugano ospite della Global Commodities Conference, ha parlato di finanza, crisi del dollaro, dazi e del processo di integrazione di Credit Suisse – Entro la fine di quest’anno la gran parte della clientela svizzera dell’ex numero due bancario svizzero migrerà su un’unica piattaforma informatica.

La due giorni della Global Commodities Conference si conclude domani. È l’evento di punta della Lugano Commodities Trading Association (LCTA) e funge da piattaforma per esplorare tendenze, opportunità e sfide nel mercato delle materie prime, messo a dura prova dagli eventi bellici degli ultimi giorni nel Golfo Persico.

Oggi, a inaugurare l’evento, c’era Sergio Ermotti, CEO del Gruppo UBS. In un fireside chat – letteralmente «chiacchierata al caminetto» – il più alto dirigente di UBS non si è sottratto alle domande di Roberto Grassi, vicepresidente della LCTA, e del numeroso pubblico. Ermotti ha risposto anche su temi di attualità come il bombardamento americano dell’Iran, la situazione internazionale che potrebbe diventare difficile anche per l’economia globale, e lo stato di integrazione con Credit Suisse.

Per quest’ultimo aspetto, Ermotti ha ricordato che i tempi annunciati ormai due anni fa sono stati rispettati e che si sta entrando nell’ultimissima fase, che comporterà la gran parte della migrazione degli ex clienti svizzeri di Credit Suisse sulla piattaforma di UBS. Un processo complicato dal punto di vista informatico, già iniziato e che sarà completato entro la fine dell’anno.

Mercati resilienti

Venerdì della scorsa settimana c’era un mondo, oggi un altro. Il bombardamento americano di obiettivi iraniani avrebbe potuto trasformare l’apertura dei mercati finanziari in una sorta di «lunedì nero». Eppure non è stato così. Secondo Ermotti, la spiegazione sta nel fatto che oggi i mercati finanziari sono molto più resilienti rispetto a solo qualche anno fa. «La situazione è comunque molto complicata, ma sono sorpreso che oggi i mercati siano molto calmi», ha ammesso il CEO di UBS.

Ermotti si è espresso anche sulla presunta crisi del dollaro. Per il momento non ci sono possibili rimpiazzi. Un’alternativa potrebbe essere l’euro, ma la mancanza di un mercato unico dei capitali – ovvero l’assenza di un debito comune tra i Paesi dell’UE – e altre questioni meramente politiche interne all’Eurozona non rendono immediata questa sostituzione. Anche lo yen giapponese, la sterlina inglese e il franco svizzero, pur essendo monete solide, non hanno sufficiente profondità e ampiezza nei rispettivi mercati dei capitali. Per ora, dunque, non ci sono alternative al dollaro. Il discorso è poi passato ai dazi e alle problematiche generate dal loro annuncio sugli scambi commerciali. Ermotti si è detto fiducioso su un accordo tra Stati Uniti ed Europa (compresa la Svizzera), così come con altre aree commerciali (Asia e America Latina) o singoli Paesi. Si andrà verso un bilateralismo nel commercio internazionale, ma non sarà un ritorno a un mondo a tariffe zero. Del resto, ha ricordato Ermotti, anche durante l’amministrazione Biden le tariffe commerciali imposte durante il primo mandato di Donald Trump non sono state eliminate.

Le future regole «too big to fail»

La posizione di UBS sulla recente proposta del Consiglio federale riguardo alle future regole sulle banche sistemiche (too big to fail) è nota. Con la richiesta di maggiori requisiti di capitale, aumentano i costi (il capitale aggiuntivo va remunerato) e si riduce la capacità di erogare prestiti. Anche un’eventuale proposta estrema – come minori regole sull’attività bancaria in cambio di maggiore patrimonializzazione degli istituti – non sarebbe accettabile. L’attività bancaria, sostiene Ermotti, si basa sulla fiducia, che è il capitale più importante. Insomma, par di capire che avere più capitale non dovrebbe giustificare un modello di business più rischioso.

Autore: Generoso Chiaradonna, caporedattore economia, Corriere del Ticino
Articolo pubblicato originariamente sul Corriere del Ticino, 23.06.2025 (online) e 24.06.2025 (cartaceo)

Riprodotto integralmente su gentile concessione dell’autore.



Lo scoppio della guerra diretta tra Israele e Iran segna una svolta importante per tutta la regione del Medio Oriente: Dimitri Loringett del Corriere del Ticino ne ha parlato con Emily Harding, analista presso il Center for Strategic and International Studies (CSIS)

Lo scoppio della guerra diretta tra Israele e Iran segna una svolta importante per tutta la regione del Medio Oriente. Il rischio di escalation è forte e si temono attacchi agli impianti petroliferi iraniani, da cui proviene circa un decimo dell’estrazione mondiale di greggio, che transita poi dallo stretto di Hormuz.

Per uscire da questa esplosiva situazione si guarda agli USA, ma anche alla Cina e alla Russia. Ma oltre al Medio Oriente c’è il conflitto in Ucraina, dal quale gli USA sembrano volersi disimpegnare. In vista della Global Commodity Conference, organizzata dalla Lugano Commodity Trading Association (LCTA) e che si terrà il 23-24 giugno al LAC di Lugano, abbiamo parlato con una delle relatrici ospiti, l’analista statunitense esperta di sicurezza nazionale Emily Harding del Center for Strategic and International Studies (CSIS).

Mentre gli effetti della guerra a Gaza, come gli attacchi dei ribelli Houthi nel Golfo di Aden (stretto di Bab al-Mandeb), sono stati in qualche modo “gestibili” per i trader di materie prime, la situazione israelo-iraniana appare molto più pericolosa. Lei vede un allargamento del conflitto tra Israele e Iran?
«Una guerra più ampia è possibile se l’Iran decide di colpire le basi militari statunitensi nel Golfo. Questo probabilmente coinvolgerebbe gli Stati Uniti e potrebbe spingere i Paesi del Golfo a contrattaccare. Sarebbe una scelta disastrosa per l’Iran. Gli Stati Uniti potrebbero anche scegliere di unirsi agli attacchi, utilizzando bombardieri pesanti per distruggere gli elementi meglio nascosti del programma nucleare iraniano».

Tel Aviv può “permettersi” un altro conflitto che, rispetto a quelli con i Paesi/aree confinanti, è potenzialmente più «impegnativo»?
«Israele vede l’Iran come una minaccia esistenziale. Dal punto di vista di Tel Aviv, l’Iran è la vera fonte di tutte le principali minacce che Israele deve affrontare, da Hezbollah agli Houthi a Hamas. Se non fosse per il sostegno dell’Iran, nessuno di questi attori sarebbe abbastanza potente da minacciare Israele. Se l’Iran riuscisse a dotarsi di un’arma nucleare, un solo attacco missilistico potrebbe significare la fine di Israele. Lo Stato ebraico considerava questa guerra necessaria e ha ritenuto che difficilmente si sarebbe presentata un’occasione più favorevole per intervenire».

I mercati del petrolio hanno immediatamente reagito all’attacco di Israele all’Iran, anche se l’attuale livello di prezzo intorno ai 75 dollari al barile è significativamente più basso rispetto ai 90-95 dollari raggiunti dopo gli attacchi di Hamas a Israele nell’ottobre 2023. Data la possibilità di un’ulteriore escalation del conflitto israelo-iraniano, quali sono le prospettive per i mercati energetici, in particolare per il greggio?
«Non mi occupo direttamente di analisi su questioni di energia, quindi non posso fare speculazioni sui prezzi del petrolio. Però, i fattori che li tengono alti saranno comunque duraturi, dalle sanzioni alla flotta ombra della Russia al conflitto con l’Iran».

Come osservato durante la recente visita di Donald Trump nella regione del Golfo, gli Stati Uniti sembrano concentrarsi principalmente sugli affari con questi Paesi. Le tecnologie avanzate, IA, «green tech» ecc. sono in piena espansione nella regione del Golfo: data l’instabilità di fondo, quanto è rischioso investire in questi settori nella regione?
«Il Principe della Corona dell’Arabia Saudita Mohammad bin Salman è abbastanza giovane e ha posto un forte accento sul high tech e sulle tecnologie per le energie rinnovabili per il Regno, suggerendo che sarà una priorità continua».

In Europa tendiamo a preoccuparci soprattutto della politica estera del suo principale partner economico, gli Stati Uniti. Che cosa rimarrà delle politiche dell’amministrazione Trump dopo il suo mandato? Qual è la visione? Per esempio, gli Stati Uniti continueranno a disimpegnarsi militarmente all’estero? E con quali conseguenze, per esempio sulla NATO?
«Trump rappresenta un cambiamento storico nella politica estera degli Stati Uniti, ma è anche un sintomo di una tendenza più ampia all’interno del Paese. Molti americani ritengono – e lo pensano da oltre un decennio – che gli Stati Uniti si siano assunti un onere eccessivo nella sicurezza globale. In altre parole, l’Europa è stata in grado di fornire ampi servizi pubblici (come l’assistenza sanitaria) perché gli Stati Uniti hanno sostenuto il peso della sicurezza. Pur non condividendo questa visione, essa è pervasiva negli Stati Uniti e Trump ha ridefinito le aspettative sulla condivisione delle responsabilità. Il suo approccio alla NATO riflette questa visione. È stato incoraggiante vedere così tante nazioni europee aumentare la propria spesa per la difesa: ciò renderà la NATO più forte e resiliente che mai».

In generale, sembra che gli Stati Uniti abbiano abbandonato il loro storico approccio “soft-power”. Fino a che punto questo è intenzionale? Qual è la logica dietro questo cambiamento che, agli occhi del resto del mondo occidentale, è fonte di preoccupazione?
«Trump sembra considerarsi un pacificatore. Ha esitato a ricorrere al potere militare degli Stati Uniti e ha fatto ampie dichiarazioni sulla sua capacità di portare la pace in vari conflitti globali, compresa l’Ucraina. L’approccio di questa amministrazione sembra essere molto orientato a spingere entrambe le parti al tavolo dei negoziati, anche se c’è stato un certo cambiamento, con critiche rivolte a Mosca per le vittime civili e per la mancanza di volontà di negoziare in buona fede».

Guardando alle tensioni commerciali con la Cina, c’è un rischio escalation, che potrebbe portare a un conflitto (si veda il rafforzamento militare nel sud-est asiatico), tra le due superpotenze oppure Washington e Pechino riusciranno ad accordarsi in qualche modo, dati i loro decennali legami economici e commerciali?
«Né gli Stati Uniti né la Cina vogliono un conflitto militare. Gli Stati Uniti dovrebbero lavorare per una politica di deterrenza solida, affinché ogni giorno la leadership del Partito comunista cinese si svegli pensando “non oggi”, perché un conflitto sarebbe troppo costoso. Nel frattempo, i Paesi del mondo devono adottare misure per ridurre al minimo la loro dipendenza economica dalla Cina. Pechino ha scelto in larga misura la coercizione economica come strumento principale della sua strategia».

Articolo pubblicato originariamente sul Corriere del Ticino, 17.06.2025

Ripreso integralmente da LCTA per gentile concessione dell’autore e giornalista Dimitri Loringett (Corriere del Ticino)

Nei giorni scorsi, all’Hotel Splendide Royal di Lugano, in occasione della sua Assemblea Generale Annuale del 2024, la Lugano Commodity Trading Association (LCTA) ha organizzato anche una «Commodity Roundtable».

La masterclass, introdotta dal Presidente Matteo Somaini, ha sottolineato le difficoltà affrontate dal settore nell’anno in corso, segnato da una crescente presenza di tensioni politiche nelle dinamiche economiche mondiali.

Continua a leggere qui: Assemblea Generale 2024 LCTA: professionisti pronti alle sfide (Ticinowelcome.ch, 09.12.2024)

Il 5 dicembre 2024 in concomitanza con la sua Assemblea Generale Annuale, la LCTA ha tenuto la «Commodity Roundtable».

La rivista online finewsticino.ch ne ha riportato i dettagli: Il trading di materie prime tra rischi geopolitici e normative rigide (05.12.2024)



La rivista mensile Ticino Management ha dedicato la cover di ottobre alle materie prime. Tra le persone intervistate anche il Segretario generale LCTA Monica Zurfluh.

L’articolo può essere letto qui: Indipendenza sì, ma da che cosa? (Ticino Management, ottobre 2024, pagg. 24-33)



È sempre più difficile parlare di carbone, ma la verità è che esiste e molte economie ne hanno bisogno, soprattutto per questioni logistiche. E sebbene le rinnovabili siano il futuro, è necessario rimanere pragmatici in questo momento: i proventi delle energie fossili finanziano gli investimenti in energie pulite. Questo è quanto è emerso, tra gli altri, l’11 ottobre 2024 nel corso della tavola rotonda tra commodity trader tenutasi in occasione del lancio della seconda edizione del programma di formazione Certified Commodity Trader Specialist, promosso da Lugano Commodity Trading Association e ALMA Impact e che coinvolge una quindicina di professionisti. Lo ha riportato il Corriere del Ticino contestualmente alla pubblicazione del rapporto annuale “World Energy Outlook” dell’Agenzia internazionale dell’energia (IEA).

L’articolo può essere letto qui: Verso l’«era dell’elettricità» con l’aiuto delle fonti fossili (cdt.ch, 17.10.2024)



In un articolo (sponsorizzato) sul portale sul Corriere del Ticino, SUISSENÉGOCE illustra l’importanza del settore delle materie prime in Svizzera, evidenziando altresì il ruolo svolto da Lugano nella negoziazione di metalli e minerali essenziali per la transizione energetica. Intervistato, il Presidente LCTA Matteo Somaini sottolinea da un lato la necessità di un approvvigionamento stabile e sostenibile, ottenibile attraverso la diversificazione delle fonti di approvvigionamento e lo sviluppo di nuove tecnologie, e dall’altro l’attenzione crescente degli investitori verso gli aspetti ESG.

L’articolo può essere letto qui: Commodity Trading: al centro dell’innovazione (cdt.ch, 15.10.2024)



Lugano ha ospitato l’1 e il 2 luglio la Global Commodities Conference 2024, evento organizzato dalla Lugano Commodity Trading Association (LCTA), nel corso del quale il mondo delle materie prime si è confrontato riguardo l’impatto sui mercati globali delle commodity determinato dalle attuali dinamiche geopolitiche e dalla transizione energetica. L’incontro ha riunito oltre 150 professionisti del settore, provenienti da tutta la Svizzera e da importanti centri come Londra e Dubai.

Ticino Welcome ne ha riportato i dettagli: Global Commodities Conference: il trading delle materie prime (ticinowelcome.ch, 19.09.2024)



Cosa sta succedendo al mercato delle commodities e quale sarà l’impatto sulle tasche dei consumatori? Il Corriere del Ticino lo ha chiesto al Presidente LCTA Matteo Somaini.

L’intervista può essere letta qui: A parte i prezzi di cacao e caffé le commodities restano al palo (cdt.ch, 18.09.2024)

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